Il
riferimento testuale di fondo di questo intervento, è il libro di
Denis Poulot: Question
sociale. Le Sublime ou le travailleur parisien tel qu’il est en
1870, et ce qu’il peut etre.
(Questione
sociale. Il Sublime o il lavoratore parigino tale come è nel 1870, e
quello che potrebbe essere),
Maspero, Parigi, 1980, mai tradotto in italiano, con una importante
introduzione di Alain Cottereau. Si tratta di un saggio che verrà
pubblicato nell’aprile 1870, ovvero circa un anno prima dell’atto
rivoluzionario parigino de: La Comune. L’autore nella sua vita
aveva scalato tutti i gradi di promozione e riconoscimento sociale,
di quelli che aveva definito come “ouvriers vrais” (i veri
operai) cioè gli operai “volonterosi”: la scuola di arti e
mestieri a Chalon, poi trasferitosi a Parigi, era divenuto
capo-montatore, capo-squadra, capo-reparto, per diventare infine
imprenditore nel settore delle macchine utensili e della bulloneria.
(En
passant
doveroso: ma quanti bulloni e rivetti avrà la Tour Eiffel?)
Nel
preambolo al suo testo, l’autore stabilisce una precisa gerarchia e
suddivide i lavoratori in otto “tipi” differenti che sono:
1)
L’ouvrier vrai.
2)
L’ouvrier.
3)
L’ouvrier mixte.
4)
Le sublime simple.
5)
Le sublime flètri et descendu.
6)
Le vrai sublime.
7)
Le fils de Dieu.
I
primi tre vengono definiti come operai in senso generico; ma ad
esempio il terzo tipo, quello misto è: di buona natura, ma debole,
perché si lascia facilmente coinvolgere. I successivi tre
rappresentano il “sublimismo”: sporco, disgustante, brutale,
grossolano, ignorante, istintivo e bestiale. Il quinto tipo tuttavia,
descrive un carattere alterato, inflaccidito, con tratti visivi di
senilità prematura e che può giungere ad abbassarsi ed umiliarsi,
per fare cose non di sua competenza. Infine gli ultimi due esprimono
un “sublimismo” diciamo superiore, dotato di una certa
istruzione, di una intelligenza, un attività ed un’energia,
impiegate però nella demolizione e non alla creazione. Ora, gli
“operai” sono quelli che hanno adottato ed introiettato il
sistema padronale di valori, ostili ai principi ed alla Rivoluzione
del 1848, nonché alla costituzione di associazioni di mestiere, per
contro ci sono invece i “sublimi”, cioè quegli operai
insottomessi, o meglio che hanno rifiutato di sottomettersi e che
sono sul piano sociale immorali, cioè irrispettosi anche di
qualsivoglia morale civile e familiare.
Il
testo di Poulot si presenta anzitutto come un violento pamphlet
anti-operaio, scegliendo come bersaglio privilegiato le attitudini e
i comportamenti costitutivi del “sublimismo”. L’autore
sostiene, che nella Parigi della seconda parte del XIX° secolo, non
meno del 60% degli operai fossero dei “sublimi”; nel suo settore
(quello delle macchine utensili e della bulloneria) la proporzione
rasentava addirittura l’85%! In altri termini egli li considerava
come lo Zeitgeist
epocale (il segno dello Spirito
del tempo).
Inoltre l’autore insiste sul fatto che essi si percepivano
affrancati da ogni regolamento di fabbrica e disciplina sociale: dal
loro punto di vista “la partita è aperta” (p. 407); addirittura
spesso controllavano loro il mercanteggiamento cioè il ritmo, del
lavoro quotidiano. L’introduzione della tecnologia venne adottata
per ridurre il più possibile, coscienti di non poterlo fare
completamente, l’iniziativa operaia, soprattutto quella dei più
qualificati, quella altrimenti detta dei “sublimi”.
Ma
le nuove macchine e gli utensili si rompevano facilmente ed occorreva
dare il tempo agli operai di ripararle, altra occasione per questi
ultimi di fare numerose e lunghe pause (p. 225). Le macchine utensili
resteranno affidate a quegli stessi operai fino a dopo il 1860,
quando la tendenza s’invertirà, aprendo la via alle mansioni
“dequalificate”.
Emile
Zola utilizzerà il testo di Poulot, che riporta modi di dire e
l’argot
(dicesi dell’insieme di termini particolari in una specie di
ripiegamento semantico come forma di protezione dal resto della
società - in inglese si direbbe slang
-
caratteristico del mondo carcerario, della malavita, della
prostituzione, etc.) della “classe laboriosa” (e ovviamente come
è stato per questo anche ovviamente “classe pericolosa”) che
sembrerebbero raccolti sugli “zinchi” (banconi) delle barrières
dei dazi doganali, posti attorno alle città, dove il vino costava
meno e dei cabaret;
il grande scrittore adotterà parecchi termini citati da Poulot, per
inserirli nel romanzo L’Assommoir
(letteralmente L’ammazzatoio,
oppure Lo
scannatoio,
cioè una mescita di vino d’infima categoria). E’ stato
ipotizzato dalla critica, che il fine ultimo dei due autori fosse
quello di denunciare la miseria del popolo, nella speranza di
migliorarne le condizioni. Nell’intento di Poulot c’era
sicuramente tuttavia anche quello di stabilire una “diagnostica
patologica” (p. 123) e perseguendo la metafora medica, proporre:
“non un sistema, ma un insieme di misure” (p. 122); “un
trattamento” (p. 123) per risolvere la “questione sociale”. Il
risultato finale appare tuttavia contraddittorio: da un lato Poulot
“vorrebbe denunciare e nel contempo non riconoscere le pratiche
operaie, che sembrano sbarrargli la strada” (dall’introduzione di
Cottereau, p. 41).
Prima
digressione semantica: sul concetto di sublime.
Nel
1674 Nicolas Boileau, il grande teorico del razionalismo e del
classicismo, aveva tradotto in francese il testo di un trattato del
I° secolo d. C.: Del
Sublime, erroneamente
attribuito al retore greco Longino (o Pseudo-Longino); il testo si
diffuse poi anche in Inghilterra e venne approfondito da
intellettuali come Addison, Akenside ed Edward Young, ma soprattutto
dal giovane Edmund Burke, nel suo saggio: Inchiesta
filosofica sull’origine delle nostre idee del sublime e del bello
pubblicato nel 1757 (trad. it.: Palermo, 1978).
Citiamo
due passaggi dal testo di Burke per determinare meglio il concetto:
“Tutto
ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò
che è in certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili o
che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte di sublime,
ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia
capace di sentire. Dico l’emozione più forte, perché sono
convinto che le idee di dolore sono molto più forti di quelle che
riguardano il piacere”…
“Nel
chiudere questa visione d’insieme della bellezza sorge naturale
l’idea di paragonarla col sublime, e in questo paragone appare
notevole il contrasto. Gli oggetti sublimi sono infatti vasti nelle
loro dimensioni, e quelli belli al confronto sono piccoli; se la
bellezza deve essere liscia e levigata, la grandiosità è ruvida e
trascurata; la bellezza deve evitare la linea retta, ma deviare da
essa insensibilmente; la grandiosità in molti casi ama la linea
retta, e quando se ne allontana compie spesso una forte deviazione;
la bellezza non deve essere oscura, la grandiosità deve essere tetra
e tenebrosa; la bellezza deve essere leggera e delicata, la
grandiosità solida e perfino massiccia”…
Appare
chiaro quindi, che se occorre “trascendere il bello“, tutte le
regole e le leggi estetiche e del gusto, messe in campo per
realizzare il bello stesso, intralcerebbero il genio creativo, che
deve invece infrangerle per elevarsi al grande, al patetico, al
sublime, cioè definire quello Burke definisce delightful
horror:
l’orrendo che affascina!
Sul
piano della definizione il termine deriva dal latino sublimis
(variante sublimus)
complemento di sub
“sotto” e limen
“soglia”, “che giunge fin sotto la soglia più alta”, ma
anche “che sale obliquamente”. Significati: 1) Altissimo, più
elevato di ogni altro; 2) nobile, eccelso; 3) manifestazione della
potenza irresistibile della natura nel suo più alto grado. Il verbo
derivato è sublimare:
1) esaltare, elevare spiritualmente; 2) in psicoanalisi, trasformare
e trasferire i propri impulsi sessuali o aggressivi in altri di
ordine superiore; 3) in fisica e in chimica, passare dallo stato
solido a quello gassoso, saltando la fase di stato liquida.
Seconda
digressione storica: dalle Jacqueries
a una dimensione urbana e pre-industriale.
Esiste
un retroterra secolare di sollevazioni e rivolte popolari, che
precedono ed inducono l’affermazione dei comportamenti dei
“sublimi“, ma che accomunano questi ultimi a quel passato in un
medesimo spirito. L’obiettivo di fondo è piuttosto chiaro: il
rifiuto passivo e/o attivo dell’obbedienza ad una autorità, il non
rispetto delle norme sociali, la disobbedienza, la ribellione, per
certi versi una scelta radicale nella sottrazione di sé, verso
l’esodo, l’emigrazione, una rapida mobilità. Le testimonianze
che possediamo dei lavoratori stagionali e itineranti che siano
americani (gli hobos)
e/o sindacalizzati come i “wobblies” organizzati
nell’International Workers of the World (IWW), o anche che siano
europei: mondine, raccoglitori di frutta, di olive, vendemmiatori
(l’epopea de la
Boje
in pianura padana con i Mandati-in-bianco,
cioè
senza il nome sul mandato, compilato dopo l’arresto dai carabinieri
che riguardò non meno di 40.000 agitatori contadini) o anche le
fughe degli schiavi russi verso le terre cosacche, tutte assumono
morfologie diverse, ma l’ontologia è la medesima: il rifiuto!
Inoltre la forza di questi segmenti di lavoratori, risiedeva nella
capacità d’imporre la loro presenza/necessità in un ciclo
stagionale ed economico, insomma uno “stato di necessità” dei
proprietari, che li rendeva contrattualmente più forti e potenti, in
modo paragonabile alle qualità ed alla coscienza che gli operai
qualificati o professionali che qui chiamiamo “sublimi”,
esprimevano…
Occorre
fare un passo indietro, per cercare di comprendere come da una
relazione di tipo schiavistico, si sia passati ad un regime
salariale. Alcuni storici hanno tentato (senza riuscirci!) di
serializzare e indicizzare le centinaia di “emozioni” (sinonimo
di troubles)
termine che identifica le rivolte popolari, spontanee, non
organizzate, spesso effimere e di breve durata, durante l’Ancien
Regime. Questo aspetto problematico rende lo spessore del fenomeno…
comunque in questa sede appare utile elencare le principali “rivolte
della plebe” generalmente rurali, sporadicamente urbane… ma è
come sgranare un rosario: Grande
Jacquerie
(da Jacques Bonhomme) del 1358; la rivolta fiorentina dei Ciompi
del 1378; la Peasent’Revolt
del 1381, scatenatasi nel Kent e nel Sussex inglese con il suo
seguito di Lollardi, di Livellatori (1607) ferocemente opposti alle
“enclosures” cioè alle privatizzazioni delle terre e
veementemente partigiani dei beni comuni e del suffragio universale
maschile e dei Diggers (1649) i primi “squatters” della storia
(slogan di John Ball: “Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov’era
allora il gentiluomo?”); la rivolta Hussita
(1419) in Boemia; le Deutscher
Bauernkrieg
(guerre dei contadini tedeschi) del 1524; la Jacquerie
dei Croquants
(Croccanti) del 1593, in un continuum di sollevazioni popolari che si
protrarranno fino ai primi decenni del Settecento, assumendo
localmente diverse denominazioni spesso folkloriche come: i
Va-nu-pieds
(da Jean va Nuds-pied, letteralmente: i “sandalati”) del 1639 in
Normandia, o ancora i Chasse-voleurs
cioè i cacciatori di ladri-imbroglioni (costituitisi contro
l’introduzione della gabella sul sale, che al tempo era monopolio
reale) e i Tard-avisèes
del 1707, che si opposero all’imposta di bollo su matrimoni e
battesimi. Come già accennato le micce potenziali di una
sollevazione popolare, erano plurime e diversificate in un ampio
spettro di cause, che andavano dalla contestazione della legittimità
della “manomorta” dei nobili, cioè l’impossibilità per un
servo di trasmettere i propri (scarsi) beni al resto della famiglia
dopo la sua morte, che venivano invece incamerati dal nobile,
all’avversione assoluta a un sistema fiscale basato sulla
“poll-tax” (Do you remember Margareth Tatcher?) cioè una tassa
fissa pro-capite, a prescindere dal sesso, dall’età e dal reddito:
bambino, una quota; scapolo, una quota; famiglia di quattro persone,
quattro quote; dall’aumento delle gabelle sul sale o l’abolizione
di una loro esenzione; all’aumento ricorrente delle tasse sul vino;
dall’appesantimento o l’introduzione di nuove “corvées“;
fino alla richiesta di un riconoscimento politico e che infine tutte
convergevano nella rivendicazione dell’abolizione dei privilegi
nobiliari e della schiavitù. Spesso questi dispositivi fiscali erano
arbitrari, ma com’è ovvio venivano anche adottati per finanziare
le guerre del tempo. Diverse rivolte si svilupparono all’interno di
un veicolo religioso, che esprimeva quindi eresie e dissenzienze di
carattere confessionale, (i Dolciniani
ne sono e rappresentano il prototipo)… d’altra parte in quei
secoli non avrebbe potuto essere diversamente. Inoltre ho volutamente
omesso tutto ciò che di simile andava scatenandosi nel calderone
slavo, cioè le ricorrenti rivolte contro il sistema feudale e la
servitù della gleba, quasi sempre guidate dalla cosaccheria:
quella d’Ivan Bolotnikov (del 1606), di Bogdan Khmelnitsky (1648),
di Stenka Razin (1667) e infine quella di Emelian Pougatchev (1773).
Concludendo
questa digressione, ciò che desidero rimanga in chi sta leggendo, è
la genealogia di un diritto di resistenza: l’obiettivo iniziale di
una rivolta era sempre tattico, ma quello finale era sempre
strategico: l’abolizione della schiavitù. (Per un approfondimento
storico, chi vuole può leggere le opere di due maestri: Boris
Porchnev, Les
Soulèvements populaire en France au XVII° siècle,
Paris, 1972; trad. it. Jaca Book, Milano, 1998; Yann Moulier Boutang,
De
l’esclavage au salariat,
PUF, 1998; trad. it. Manifestolibri, Roma, 2002).
Terza
digressione di storia comparativa: dai “canuti” ai “sublimi”.
Ma
prima di tornare ai nostri “sublimi”, occorre insistere sul fatto
che ormai dopo la Rivoluzione Industriale e quella Francese, lo
schiavismo e le regole feudali erano divenuti anacronistici (per lo
meno in Europa), i contadini diverranno operai e le sollevazioni
rurali non avranno più modo e luogo di esistere: le contraddizioni
ed i conflitti si trasferiranno nei centri urbani. Il nuovo livello
dello scontro sarà quello della rivolta urbana, una presa d’atto
appunto anche dell’invenzione dell’urbanistica, condotta a Parigi
dalle gigantesche ristrutturazioni del barone Haussmann, con ovvie
funzioni anti-barricate e anti-rivoluzionarie. Questo new
step of exploitation
e preceduto da esso, l’invenzione del “mercato” (testo
ortodosso di riferimento: Karl Polanyi, The
Great Transformation,
Beacon Press, Boston, 1944 - trad. it.: La
grande trasformazione,
Einaudi, Torino, 1974) si svilupperà su cinque direttrici:
1)
la nuova dislocazione e concentrazione dei centri produttivi guidata
da esigenze logistiche (prossimità delle miniere, nesso
carbone-vapore, porti e snodi commerciali);
2)
l’emigrazione massiccia degli ex-servi della gleba ormai contadini,
verso centri abitati spesso di nuova fondazione, ma anche verso le
città tradizionali, cioè quel gigantesco fenomeno demografico
denominato “urbanizzazione”;
3)
il concentramento di capitali che abbandonano il fondiario e
divengono finanziari, per sostenere la trasformazione industriale ed
il passaggio dalla manifattura, all’industria;
4)
l’adozione lenta ma inesorabile e poi sempre più rapida, di nuove
invenzioni e dispositivi tecnici: nel tessile la “navetta volante”
di John Kay (1733), la “spinning-jenny” di Hargreaves (1765), la
“mule-jenny” di Arkwright (1779) fino ai telai Jacquard; nella
siderurgia i forni Bessemer, Martin e Siemens; l’adozione massiccia
del vapore e la sua applicazione ai trasporti: (Watt e Boulton)
ferrovie e navigazione;
5)
l’emergere di nuovi comportamenti spesso individuali, ma anche
collettivi di protesta, in uno spettro che va dalla banale allergia,
al rifiuto esplicito della disciplina dell’officina, fino al
sabotaggio atto che deriva dal termine sabot,
cioè agli zoccoli di legno che soprattutto nell’Europa
settentrionale, venivano buttati dentro i telai per interromperne la
produzione, fino alla distruzione vera e propria delle macchine (il
Luddismo
inglese).
Il
clima del tempo annunciava quello della Bohème,
dei poeti “maledetti”, degli artisti “decadenti”, del rifiuto
del conformismo borghese, degli amori adulterini, impossibili o
venali e dell’alienazione produttiva.
A
Lione, l’attività produttiva prevalente divenne quella della
lavorazione della seta (circa la metà dei lavoratori della città)
organizzata in strutture ancora semi-corporative, una piramide alla
base della quale c’erano i “canuti” (e le “canuse”) dal
nome delle bacchette di legno utilizzate, per svolgervi il filo
srotolato dal baco, prelevato da una tinozza di acqua bollente (le
mani dei “canuti” erano segnate e deformi a causa delle continue
scottature). L’insieme delle attività legate alla produzione della
seta, assumevano il nome di “La Fabrique” .
I
“canuti”, se preferite chiamateli setaioli, si dichiararono in
stato di agitazione nell’estate del 1831 con una serie di
rivendicazioni diciamo “canoniche”, come la riduzione della
giornata lavorativa da 13-15 ore giornaliere ad 8, (con buona pace
del Ministro Poletti…), l’aumento del salario e l’istituzione
di un suo livello minimo, la limitazione del lavoro infantile e
ovviamente contro i telai Jacquard...che spossessavano e
de-possessavano il savoir-faire
operaio.
Il
loro slogan era: “vivere liberi lavorando o morire combattendo”,
ma anche quello meno eroico: “meglio soffrire il caldo mangiando,
che prendere freddo lavorando”. Ovviamente la rivolta verrà
repressa nel sangue dopo aspri combattimenti nell’inverno dello
stesso anno, con decine di morti sia tra le file dell’esercito, che
di quelle dei “canuti” che si erano impossessati delle armi in
una caserma prossima ai loro quartieri.
Aneddoto.
I “canuti” come reminiscenza comunale, avevano diritto a mezzo
litro di vino al giorno (come i soldati)! Con una legge del 1843,
questo diritto venne ridotto a 46 cl. (ogni due “canuti” serviti,
la somma era di 46 più 46 = 92 cl.) per arrivare al litro, ne
mancavano 8 cl., che vennero chiamati “il bicchiere del padrone”.
Per imporre questa nuova misura di 46 cl. venne inventato il pot
lyonnais, cioè
una bottiglia di vetro povero e dal fondo spesso, che misurava quei,
centilitri, ma il cui costo rimase invariato rispetto al mezzo litro.
Può sembrare un dettaglio, ma non lo è. La vetreria poco fuori
Lione che produceva i pot,
verrà rilevata nel 1966 da Antoine Ribaud (BSN) che riuscendo ad
adottare un’abile strategia di packaging, s’imposseserà prima
degli yoghurt (Gervais-Danone) e poi trasformerà il gruppo in un
leader mondiale dell’agro-alimentare (attualmente secondo, solo
dopo Nestlè).
Molti
“ex-canuti” convergeranno poi in una società operaia lionese,
detta dei “Voraci”, dando vita all’ennesima rivolta tra il
1846-1849, con l’obiettivo di lottare contro il pot
adottato dai cabaret,
mentre nelle mescite e nelle barrières
vigeva sempre il litro; ancora una volta vennero rivendicati il
salario minimo ed il rifiuto del cottimo. Nella genesi dei “Voraci”
rimarranno le radici comuni con i “canuti“, molti rivendicheranno
il passato dei sanculotti; per quanto riguarda invece l’origine del
nome esso deriva dalla concezione di essere tutti legati da un Devoir
(un Dovere, ma per estensione sono chiamati così, anche i compiti
scolastici). Essi si percepivano compartecipi di legami mutualistici,
da cui i termini: devoir mutuel = devoirant = voraces.
Appare
evidente il fatto che nei “canuti” e nei “voraci“, la
dimensione collettiva delle rivendicazioni superava quella
individuale e alludeva ai principi di formazione del socialismo a
venire… nei “sublimi” invece la rivolta era puramente
individuale, cioè risiedeva nei comportamenti, in quello che è
stato definito molto tempo dopo come la soggettività operaia. Un
colpo bene assestato a un trapano, a un tornio, o piuttosto a una
fresa, ti garantiva tre ore o anche un giorno di “fermo macchina”,
senza necessità di legittimazione. Per non parlare della fragilità
di un telaio Jacquard, con cui si producevano (e si producono ancora
oggi) broccati, damascati e pizzi, basato su un sistema di cartoni
perforati peraltro assai vulnerabili all‘umidità o agli atti di
vandalismo. Questa innovazione avrebbe ispirato Charles Babbage,
quando utilizzò quell’idea per adattare il principio delle schede
perforate, in una macchina in modo che generasse operazioni
matematiche, nacque la “Macchina analitica”, cioè la bisnonna
degli attuali computer.
I
lunedì (Santi) dei Sublimi.
Torniamo
tuttavia ai “sublimi”, nel suo testo Denis Poulot ci parla di un
certo operaio chiamato Tisserand (in italiano Tessitore) che aveva
scritto un motivetto cioè una canzonetta, il cui refrain
era:
Enfants
de Dieu, crèateur de la terre,
Accomplissons
chacun notre métier
Le
gai travail est la sainte prière
Qui
plait a Dieu, ce sublime ouvrier.
I
“cattivi operai”, cioè i “sublimi”, avevano dirottato e
deriso il senso di questo motivo moralizzatore che nelle altre strofe
esaltava il patriottismo, l’obbedienza e la modestia:
Fils
de Dieu, crèateur de la terre,
Accomplissons
chacun notre métier
Le
gai travail est la sainte prière
Ce
qui plait à Dieu, c’est le SUBLIME ouvrier.
Il
messaggio fu subito chiaro. Non era tanto Dio ad essere “sublime”,
ma gli operai essi stessi; cioè i soli creatori di ricchezza
attraverso il proprio lavoro. L’argot
parigino aveva ancora una volta compiuto la sua missione: deridere il
potere padronale e opporsi alla disciplina di fabbrica.
I
primi giornali proto-anarchici e proto-socialisti, avevano titoli
evocatori: “La rivincita del forzato”, “Il grido del forzato”,
“Il risveglio del forzato”. Sempre dal testo di Denis Poulot, si
viene per esempio a conoscenza che a Vierzon (nella Cher) il
Direttore della Sociètè Francaise de Materiel Agricole, camminava
per i reparti con un revolver in mano e sbraitando che non avrebbe
esitato a servirsene se gli operai l’avessero minacciato.
A
Rouen (in Normandia) il regolamento precisava: “è passibile di una
multa di 0,25 Franchi:
1)
l’operaio che trascina scarti di produzione fuori dal proprio sacco
o per terra.
2)
Quello che si laverà o pettinerà o luciderà le sue scarpe,
allontanatosi prima dell’ultimo quarto d’ora che precede
l’uscita.
3)
Quello che si troverà senza permesso in un punto in cui il suo
lavoro non l’ha chiamato”.
Generalmente
i gabinetti vengono sorvegliati: alle Usines Renault, la direzione
aveva fatto tagliare la parte bassa delle porte delle toilette, per
sorvegliare più facilmente il “tire-au-flanc” (che in argot
significa una persona che cerca di sottrarsi e sfuggire a una corvée,
termine desueto per definire obblighi anzitutto lavorativi, ma anche
quelli morali e familiari, cioè quello che le mogli impongono ai
mariti con “la disciplina della fame”). Alcuni storici fanno
risalire a questo periodo storico l‘invenzione degli orinatoi
(francese “urinoir“) come forma di velocizzazione del
soddisfacimento dei bisogni corporali, ormai di massa… come ci ha
giustamente insegnato il Ready-made
di Marcel Duchamp del 1917, intitolato Fontaine
o La
Madone des toilettes.
A
lavorare, anzi “au bagne” (intendendo per questo il sinonimo di
“bagno penale” cioè “galera”) si entrava alla tenera età si
8-9 anni. Nel 1841 alcune istanze umanitarie proporranno di
regolamentare il lavoro infantile, ma l’allora Ministro del
Commercio dichiarerà: “L’ammissione dei fanciulli nelle
fabbriche dall’età di 8 anni, è per i genitori un mezzo di
sorveglianza, per i bambini l’inizio di un apprendistato, per le
famiglie una risorsa”.
Comunque
da quanto fino ad ora descritto, la filosofia dei “sublimi” si
presenta pertanto come una forma di resistenza alla pressione
padronale, che vuole aumentare le cadenze, stimolare/incentivare la
produttività, disciplinare e “mettere al passo” ciascun operaio;
come accadrà nel resto dei paesi europei, si arriverà al punto di
mobilitare i concetti di ordine, ma in primo luogo quelli di igiene e
pulizia.
La
risposta sarà quella dei Santi lunedì, cioè la consuetudine di non
andare a lavorare il lunedì, che divenne una pratica consolidata e
massificata, che secondo alcuni storici, risalirebbe addirittura al
Medio Evo, ma che in questo momento storico si generalizzerà ancora
di più, trasformando questo giorno feriale in un sinonimo di diritto
al “riposo” oscurando la domenica. I Santi lunedì saranno un
comportamento distintivo dei “sublimi”.
Se
gli studi sui “sublimi” sono rari e frammentari, quelli sui Santi
lunedì sono più numerosi, mi limito in questa sede ad elencare i
principali:
Robert
Beck, “Apogée et declin de la Saint Lundi dans la France du XIXeme
siècle”, in: Revue
d’histoire du XIXeme,
n° 29, 2004.
Alain
Caillaux, Vie
et mort de la Saint Lundi, aux dix-neuvième siécle,
Maitrise en histoire, Université de Paris VII, 1977 (non
pubblicata).
Edward
P. Thompson, “Time, Work-Discipline, and Industrial Capitalism”,
in: Past
and Present,
n° 38, dicembre 1967, pp. 56-97.
Douglas
A. Reid, “Der Kampf gegen den Blauen Montag 1776 bis 1876”, pp.
265-296, in: Detlev Puls (dir.), Wahrnehmungsformen
und Protestverhalten. Studien zur Lage der Unterschichtem im 18, und
19, Jahrhundert,
Francoforte, Suhrkamp, 1979.
Jean-Pierre
Navailles, “A’ la Saint-Lundi tout est permis”, in: L’Histoire,
n° 343, juin 2009.
Lars
Magnusson, “Proto-industrialisation, culture et tavernes en Suède
(1800-1850)”, in: Annales.
Economies, sociétés, civilisations,
tomo 45, n° 1, gennaio-febbraio 1990, pp. 21-36.
Le
principali forme di resistenza dei “sublimi” erano tre:
1)
Prima forma di resistenza al potere padronale: un’estrema mobilità.
Sul
piano psicologico la capacità di non farsi influenzare, né
condizionare… oggi si direbbe “fidelizzare” dal padronato; che
si fonda sulla determinazione (cosciente? Incosciente? Difficile
dire) di una grande capacità di smarcamento, anche dai vincoli di
carattere morale, nei termini che Deleuze percorre nelle sue opere
(nel suo concetto-hub di esodo)
ma sdu questa strategia di difesa, vedasi anche: Henry Laborit, Eloge
de la fuite,
Editions Gallimard, 1985.
In
buona sostanza l’operaio qualificato/professionale francese del
XIX° secolo è per definizione nomade; è riluttante a fissarsi e
rimanere in un posto di lavoro, è refrattario agli incentivi, le sue
competenze e le sua abilità lavorative gli conferiscono la potenza
dell’autovalorizzazione e dell’autodeterminazione, ovvero la
possibilità di spostarsi spesso; egli fa una sua ragione di vita
quella di cambiare continuamente sia le affettività, che i posti di
lavoro; non solo, per una minima scusa e per un nonnulla cambia boita
(un
francesismo, che sta per “scatola”, sinonimo di posto di lavoro).
Su questo piano i “sublimi” somigliavano ai contadini del
nord-Italia che cambiavano cascina a San Martino, ma forse ancora di
più erano simili agli operai sovietici, perché come questi ultimi:
“protestavano con i piedi”!
2)
Seconda forma di resistenza al potere padronale: la volontà e la
libertà di disporre del proprio tempo, il piacere dell’evasione,
dell’utilizzo del “tempo liberato”, di “rifiutare la sirena
della fabbrica”.
Come
già detto i “sublimi” non andavano abitualmente a lavorare il
(Santo) lunedì, ma cominciavano la loro settimana lavorativa il
martedì, ma in casi sporadici, come quella dei tipografi iniziava il
giovedì (data la ricaduta spesso settimanale del giornale). Il
padronato fece di tutto per impedire questa pratica e mise in campo
un sistema di richiami - ammende - multe, che non sortirono mai il
benché minimo effetto sugli “assenteisti”, anzi suscitarono
ammirazione negli altri segmenti operai (i vetrai, i lattonieri, i
saldatori, i portuali, etc.). D’altra parte il “sublime” era
pressoché certo di trovare fin dal giorno successivo al suo
licenziamento, un impiego in un luogo adiacente. Quanto agli
scioperi, circa la metà di essi si svolgevano in primavera.
3)
Terza forma di resistenza al potere padronale: l’opposizione alla
corsa al rendimento, al cottimo ed ai salari di miseria. Utilizzo
degli artifizi e dei trucchi (les
ficelles)
del mestiere e della conoscenza operaia.
L’operaio
qualificato sente ed “annusa” meglio degli altri il lo spessore
ed il peso della congiuntura. Possiede sempre precisamente il polso
del suo lavoro, tiene d’occhio ed è capace di valutare anche gli
stock
di magazzino ed i carnet
di ordinativi; sa ad esempio che se entro la mattinata non
arriveranno determinate forniture e pezzi, potrà andarsene a casa
prima dell’orario. E’ capace di mettere a frutto ogni
dimenticanza; ogni manchevolezza della direzione e del padrone,
benchè minima, verrà da lui utilizzata a proprio vantaggio. Se un
“sublime” si accorge che il padrone è in ritardo per una
consegna, abbandona l’officina con la sua equipe (il paragone con
la sala operatoria, non è peregrino! Essa rappresenta un limite, non
è e non sarà mai taylorizzabile!)
Il padrone sa che non può contare sugli “operai veri” o su dei
“fayot” (fagioli secchi, dicesi di operai zelanti di complimenti
per i superiori, ma dalle capacità limitate) incapaci di eseguire un
lavoro difficile… quindi si rassegna e concede un aumento della
paga, oppure una mezza giornata libera…
Occorrerà
attendere la fine del XIX° secolo per vedere sparire i “sublimi”.
Saranno numerose le istanze chiamate a partecipare alla messa a morte
del loro desiderio di libertà: il padronato (grazie all‘adozione
del “sistema Bedaux”, cioè la prima forma di “tempismo e
misurazione delle mansioni” poi adottata dalla FIAT al Lingotto,
vale a dire una forma europea ibrida di taylorismo),
le donne, il giardino, il week-end, il risparmio, il mutuo della
casa, le campagne contro l’alcolismo, la repressione
post-comunarda, l’identità del lavoro, tutto contribuirà a
fissarli. Nel 1884 i sindacati verranno autorizzati, fin da subito
prenderanno posizione contro i “sublimi” ed i loro comportamenti.
I primi giornali sindacali disapproveranno la pratica del “Santo
Lunedì”. Era ormai giunta l’epoca dell’operaio disciplinato,
militante e “responsabile”. Era ormai giunto il tempo
dell’operaio-massa e della forma-partito. Ciò che resta è un
dubbio: non è forse possibile che i “sublimi”, indicassero una
fase ovviamente transitoria (Spinoza direbbe un “modo”) destinata
ad evolversi in futuro. Forse domani anche grazie a loro avremo un
Quinto Stato!
Vorrei
concludere questo intervento, citando un’affermazione perentoria,
che è stata pronunciata ed attribuita a un “sublime” da Emile
Zola, nel capitolo VIII° de L’Assommoir:
“Je
veux la suppression du militarisme, la fraternité des peuples…
Je
veux l’abolition des privilèges, des titres et des monopoles…
Je
vieux l’égalité des salaires, la répartition des bénéfices, la
glorification du proletariat…
Toutes
les libertés, entendez-vous! Toutes !… Et le divorce.”
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